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Intervista ad Annalisa Banzi
Articolo tratto da Next 71
Capita di venir presi dalla smania di voler vedere tutto quando si varca la soglia di un museo. Forse sarebbe un’impresa titanica. Meglio guardare poche opere come suggeriscono alcuni storici dell’arte. Questa selezione aiuta il nostro cervello a non affaticarsi troppo e a fissare meglio nella memoria. Siamo così più aperti a vivere un’esperienza appagante da ripetere.
Qualche riflessione proposta da esperti museali. John Falk ricorda che ognuno di noi è particolarmente motivato ad imparare quando siamo coinvolti in attività significative. Quando siamo liberi da ansia, paura e da altri stati mentali negativi. Quando possiamo scegliere e controllare il nostro apprendimento. E da ultimo quando le sfide del compito che incontriamo sono adeguate alle nostre capacità. Aggiungerei che dovremmo tenere in considerazione anche aspetti all’apparenza banali, come trascinarsi una borsa pesante o arrivare in museo affamati, che possono compromettere, talvolta inconsapevolmente, la piacevolezza della visita. Tom Owen parla di quattro fasi che caratterizzano, dal punto di vista emotivo, l’arrivo in museo. Il primo coinvolgimento delle persone, che può essere legato all’attrattività di un’icona o a un altro elemento che ci dà un’idea degli oggetti esposti. Il processo, che fa riferimento agli aspetti relativi alla sicurezza e alla biglietteria. La decompressione, che è il tempo necessario per raccogliere familiari o amici, oggetti personali e pensieri.
La realizzazione, che ci porta ad entrare nel momento presente.
Se i primi due passaggi sono quasi automatici, gli ultimi no. La decompressione e la realizzazione penso siano momenti importanti. Che il museo abbia predisposto o meno lo spazio temporale per considerarli poco importa. Possiamo farlo noi ritagliando qualche minuto da dedicare a raccogliere i pensieri e ad assaporare la curiosità, magari anche la gioia, di essere finalmente in quel museo. La familiarità con gli stimoli che incontriamo, sia che si tratti di oggetti o di luoghi, gioca un ruolo fondamentale nelle nostre scelte. Come spiega Hooper-Greenhill, quando si arriva per la prima volta in un posto sconosciuto la sensazione immediata è spesso quella di non sapere cosa fare o dove andare. Per alcune persone è una situazione elettrizzante. Per altre è una fonte di ansia sentendosi fuori controllo e confusi.
Non lasciamoci però sopraffare da eventuali timori perché potremmo perdere occasioni interessanti. Quindi, un museo mai visitato, con un aspetto imponente e con grandi sale che non finiscono più, non è un mostro da cui scappare.
Possiamo avvicinarlo piano piano come suggerisce la volpe al Piccolo Principe: “in principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. […] Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino”. E così anche noi possiamo familiarizzare con un museo che ci desta un po’ di ansia. Lo visitiamo a pezzi e iniziamo a conoscerlo o, come direbbe la volpe, ad ‘addomesticarlo’. Per fortuna non dobbiamo fare tutto da soli! I musei stanno lavorando sodo per offrire esperienze da ricordare. Negli ultimi anni si sta verificando una crescente interazione tra gli studi in ambito museale e le discipline scientifiche. Ad esempio, le neuroscienze si occupano del funzionamento del sistema nervoso e del suo ruolo nel comportamento umano. In ambito museale esse offrono la possibilità di misurare l’attività cerebrale del pubblico coinvolto nell’osservazione degli oggetti esposti.
La sfida che mi sono posta è di iniziare a pensare ad un museo brain-friendly, attento ai bisogni del nostro cervello, chiedendo aiuto alla psicologia per migliorare gli allestimenti degli spazi o la comunicazione con il pubblico, e alle neuroscienze per ‘ascoltare’ il cervello dei visitatori. Ciò aiuterà i musei a proporre iniziative che generano in ognuno di noi sempre più soddisfazione e benessere mentale.
Annalisa Banzi
Storica dell’arte e dottore di ricerca in Interazioni umane
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