Per il nuovo numero di Next incentrato sul Colore, Claudio Paolinelli, professore di Storia della Ceramica all'Università di Urbino, ci spiega la tinta acromatica per eccellenza: il bianco.

Il Bianco de “i Bianchi”

Bianco che più bianco non si può

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Signore e signori: il Bianco.

  Articolo tratto da NEXT 64, Marzo 2020

Da manuale il bianco è un colore con elevata luminosità, ma senza tinta e per questo è detto “colore acromatico”. Ma esiste in realtà una vasta gamma di bianchi che comunemente, e specialmente nel mondo dell’arte, possiamo declinare in diverse sfumature, dal bianco avorio al bianco sporco, dal bianco optical al bianco latte…

Nella storia della maiolica italiana, con il termine bianco o meglio ancora “bianchi”, si identifica una particolare tipologia ceramica che ha fatto del suo colore dominante il suo nome! In pieno Rinascimento, l’esplosione del colore in ogni sua forma ha reso unici e irripetibili capolavori assoluti dell’arte e anche nelle arti applicate, si poté assistere ad una ricerca continua di nuovi accostamenti, nuove sfumature, che quasi in competizione con la natura, potessero esprimere la gioia e la vivacità di un’epoca storica senza eguali.

Sul finire di questo periodo di rinascita, dalla metà del XVI secolo, si assiste ad una “rivoluzione cromatica” in campo ceramico; tutti i colori vivaci declinati con mezze tinte che avevano caratterizzato i grandi servizi da tavola istoriati, specie del Ducato di Urbino, sembrano annullarsi per lasciare spazio al bianco ottenuto con un rivestimento più o meno consistente di smalto ad alta percentuale di stagno. Così quel percorso di ricerca, e molte sperimentazioni, che aveva portato i figuli del Quattrocento ad arricchire il repertorio decorativo fatto di tratti color verde ramina e bruno manganese con tocchi di blu cobalto e giallo ferraccia, sembrava davvero essere giunto al termine.

E’ come se le superfici concave e convesse avessero fatto scivolare il colore sugli orli vertiginosi di coppe, rinfrescatoi e crespine, lasciando spazio alla tinta neutra di fondo… ecco allora che si afferma prepotentemente una moda dettata da un nuovo gusto estetico ma anche da esigenze pratiche.

Infatti la richiesta di vasellame bianco, candido, con piccoli decori araldici o floreali che lambiscono i bordi o evidenziano il centro fisico dell’oggetto, nasce anche da un fatto di natura igienica. Sulle mense del XVI secolo, specie delle classi meno abbienti, si mangiava in scodelle di legno. Con l’usura tali manufatti assorbivano le sostanze liquide del cibo, specialmente quelle più grasse, causando nel tempo sgradevoli situazioni in cui diventava davvero difficile riconoscere il sapore del cibo, corrotto dai cattivi odori. Se alcuni si potevano permettere vasellame metallico, si optava spesso per il più economico peltro di tradizione nordica, ma anche questo materiale, graffiato con le posate e corroso dall’ossidazione, rilasciava sostanze sgradevoli.

Così poter mangiare su di un piatto di maiolica bianca non era così scontato…  Il candido vasellame era bello, facilmente lavabile, fragile ma abbastanza resistente per durare e soprattutto capace di esaltare con il proprio candore il cibo che accoglieva senza lasciare alcuna traccia nel sapore. Sul mercato iniziò di conseguenza una richiesta sempre maggiore di tale vasellame, semplice ma allo stesso tempo rivoluzionario, abbastanza economico e versatile per adattarsi a qualsiasi esigenza decorativa. Infatti la nobiltà italiana ed europea volle sovente impreziosire i propri servizi da mensa tutti bianchi con piccoli stemmi, evidenti segni distintivi per affermarne la proprietà ma soprattutto per esaltare il proprio casato.

A primeggiare in Italia nella produzione di questa tipologia ceramica fu la città di Faenza che già dagli anni Quaranta del Cinquecento vide una produzione rilevante per il mercato interno e per le esportazioni. Tanta fu la fama di tale vasellame che la maiolica bianca venne chiamata in Europa faïence e in Italia semplicemente “i bianchi” di Faenza. L’importanza del neologismo faïence per maiolica, che ha legato per sempre il toponimo al prodotto artistico di una città quale Faenza, fu subito evidente presso i contemporanei dell’innovazione di successo, ovvero quei “bianchi” celebrati incessantemente in trattati, poemi e documenti vari. La diffusione capillare di ceramiche bianche faentine, portò la nuova tendenza estetica anche nei centri produttori delle Marche: principalmente a Castel Durante, Urbino e Pesaro ma anche in realtà minori non ancora indagate.

Ne è un esempio il bel piatto che si conserva al Museo Civico di Corinaldo dove campeggia, a lambirne l’orlo, l’elegante stemma policromo della famiglia Orlandi. L’opera tardo cinquecentesca, nel tipico stile “compendiario” cioè risparmiato, con poche decorazioni leggere e stilizzate, si mostra nel suo candore. A rubare la scena allo stemma, il foro centrale realizzato quando il piatto non fu più ritenuto idoneo per la mensa, forse messo da parte perché non più alla moda o superstite di un ampio servizio andato in frantumi. Quel foro, benché ne rovini la percezione estetica, è significativo in quanto evidenzia la persistenza di certi oggetti che sopravvivono ai legittimi proprietari e ai gusti delle epoche. Un foro preciso, realizzato con un trapano per farvi scorrere la corda di sospensione di un salume e quindi salvarlo dagli attacchi dei roditori.

Questa è la forza e la bellezza di una maiolica bianca: glorificare una famiglia di alto lignaggio, esaltare del buon cibo, salvare un salume dall’appetito di un insalubre roditore.

Claudio Paolinelli

Professore di Storia della Ceramica

Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Urbino

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